L'annessione di Gerusalemme Est

Dopo l'unificazione di Gerusalemme sotto il controllo israeliano nel 1967, a seguito della guerra dei sei giorni, la parte araba della città (Gerusalemme Est) è stata annessa allo stato di Israele. Gli abitanti palestinesi della città si sono trovati di fronte all'alternativa di chiedere la cittadinanza israeliana oppure ottenere lo status di stranieri residenti. L'accettazione della cittadinanza avrebbe comportato un giuramento di fedeltà alla potenza occupante, difficilmente accettabile per i palestinesi, ma soprattutto avrebbe significato il riconoscimento dell'annessione (annessione illegale e non riconosciuta dalla comunità internazionale). Solo pochissimi palestinesi hanno pertanto optato per la cittadinanza.
 

Stranieri nel loro paese

Trovatisi all'improvviso nella condizione di stranieri, i cittadini arabi di Gerusalemme sono stati soggetti ad una politica di discriminazione.
"Dall'annessione di Gerusalemme-Est a Israele nel 1967 tutti i governi hanno fatto ogni sforzo per ridurre sensibilmente il numero dei residenti palestinesi in questa parte della città attraverso restrizioni relative all'edilizia, severi provvedimenti in merito all'unificazione familiare e minimi investimenti per le loro infrastrutture. A tutto ciò corrisponde una politica di rinforzo della sovranità di Israele su Gerusalemme-Est, così da non poter essere eventualmente minacciata in futuro" (B'Tselem-HaMoked, La deportazione  silenziosa, aprile 1997).
La maggior parte della terra espropriata dagli israeliani a Gerusalemme dopo il '67 apparteneva agli arabi, ma nessuna delle 38.500 abitazioni che vi sono state costruite è andata a famiglie arabe. Complessivamente sono state costruite 64.870 abitazioni per cittadini ebrei e solamente 8.890 per i cittadini arabi (dati forniti da B'Tselem ).
La difficile situazione abitativa ha costretto molti arabi a trasferirsi nelle aree vicine, pur mantenendo spesso il lavoro a Gerusalemme. Tanti si sono poi trasferiti all'estero temporaneamente per studio o lavoro.
Chi stava all'estero per oltre 7 anni senza mai tornare perdeva il diritto di residenza, come lo perdevano ad esempio anche le donne che sposavano un cittadino estero o un residente dei territori occupati.
 

 
La deportazione silenziosa

Una certa chiarezza e stabilità nelle regole riguardanti il diritto di residenza aveva comunque permesso a molti di mantenere il loro status di residenti. Da circa due anni però, secondo la denuncia di due Centri per la difesa dei diritti umani israeliani, B'Tselem e HaMoked, la politica dell'amministrazione israeliana si è ulteriormente irrigidita assumendo le caratteristiche di una vera e propria "deportazione" dei palestinesi residenti a Gerusalemme est. Si tratta di una politica che, attraverso la revoca dei permessi di residenza ai cittadini arabi, mira ad ebraicizzare sempre di più la parte araba di Gerusalemme, così da renderne indiscutibile l'annessione allo stato di Israele, a fare riconoscere internazionalmente Gerusalemme come propria capitale e a costringere i palestinesi a rinunciarvi in maniera definitiva. Utilizzando cavilli legali, le situazioni che comportano la revoca dei permessi sono state ampliate in modo arbitrario. Non è più necessario lasciare il paese per lunghi periodi, basta che si possa sostenere che il "centro della vita" di una persona si è spostato da Gerusalemme per la revoca del permesso di residenza. Questo significa ad esempio che se i figli vanno a scuola a Ramallah (circa 20 minuti in auto da Gerusalemme) una famiglia rischia di vedersi espulsa (vedi riquadro). Tra l'altro l'amministrazione israeliana molto spesso non si cura neppure di motivare le espulsioni, facendo vivere i cittadini arabi in uno stato di precarietà e continua incertezza. La base giuridica di questa situazione è il considerare i palestinesi di Gerusalemme-Est come "immigranti i cui diritti dipendono dalla discrezione ed eventuale concessione dello stato di Israele". Ma oltre al fatto che i palestinesi a Gerusalemme non sono immigrati, sono invece cittadini che vi sono nati e cresciuti e che, se temporaneamente assenti, tuttavia vi conservano legami di famiglia o di parentela o di lavoro, l'ingiustizia di tale indirizzo politico balza evidente se si considera che "ai cittadini israeliani il diritto al ritorno è sempre garantito, anche se hanno vissuto all'estero lunghi periodi". Ed inoltre Israele ha favorito negli ultimi dieci anni l'immigrazione, corredata da cittadinanza, di almeno 800.000 ebrei dell'est europeo, di 60.000 ebrei etiopici -in proporzione è come se in Italia fossero giunti 12 milioni di immigrati- e da qualche anno si registra perfino un massiccio arrivo di lavoratori non ebrei, europei dell'Est, asiatici, africani (300.000) "destinati a lavori non qualificati e mal pagati, finora riservati ai palestinesi" (A. Kapeliouk, Israele, i tanti volti di un'immigrazione, in "Le Monde diplomatique", novembre 1997, p. 10).
 

Condividere Gerusalemme: due capitali per due stati

La campagna di solidarietà con la popolazione araba di Gerusalemme, iniziata da B'Tselem e HaMoked, è organizzata in Italia dalla Rete Radiè Resch, dall'Associazione per la Pace, da Salam Ragazzi dell'Olivo, insieme ad altre associazioni di solidarietà.
Obiettivo della campagna è l'interruzione delle espulsioni e la richiesta che si accolga dalle due parti l'idea di una Gerusalemme condivisa, sede delle capitali dei due stati, quello Israeliano e quello Palestinese.

Per maggiori informazioni scrivere a gallo@di.unipi.it