Giorgio Gallo
Il cinque giugno 1967 inizia, con un raid aereo che distrugge a terra tutta l'aviazione egiziana, l'attacco preventivo israeliano, che, nel giro di sei giorni, porta alla conquista da parte di Israele di tutta la Palestina dell'ex mandato britannico (la Cisgiordania, fino ad allora in mani giordane, e la Striscia di Gaza, in mani egiziane), delle alture del Golan siriano e dell'intero Sinai egiziano.
Perché scoppia la guerra? I 18 mesi precedenti erano stati caratterizzati da un crescente attivismo della resistenza armata palestinese a partire da basi in Giordania ed in Siria. Protagonista principale è il nuovo movimento Fatah guidato da Yasser Arafat. Si tratta prevalentemente di atti di sabotaggio e di scaramucce alle quali Israele risponde con durissime rappresaglie. La più pesante, sul fronte giordano, avviene nel novembre 1966. Una brigata corazzata di 4000 uomini passa il confine ed occupa la cittadina di Samu nei pressi di Hebron. Centoventicinque case, un ambulatorio, una scuola, un ufficio postale ed una biblioteca vengono distrutti. Diciotto soldati giordani vengono uccisi (un caduto fra gli israeliani). La rappresaglia vuole punire oltre che la popolazione palestinese, il governo giordano per la sua incapacità di prevenire le infiltrazioni della resistenza in Israele. La rappresaglia apparve sproporzionata alla stessa amministrazione Usa. In quell'occasione l'ambasciatore americano all'Onu, Arthur Goldberg, dichiarò; “voglio che sia chiaro che questa azione militare di ampia scala non può essere giustificata, spiegata o scusata dagli incidenti che la hanno preceduta, nei quali il governo giordano non è stato implicato”.
Nell'aprile 1967 si verifica un secondo gravissimo incidente, questa volta alla frontiera con la Siria: sei aerei siriani sono abbattuti dall'aviazione israeliana. La tensione sulla frontiera è fortissima. A maggio si profila concreta la minaccia di un attacco israeliano contro la Siria. Questa minaccia, come ricorderà successivamente l'allora segretario generale dell'Onu, U Thant, era presa molto sul serio nelle capitali arabe. Ne è una prova l'avvertimento rivolto dallo stesso Dipartimento di stato Usa ad Israele circa gli effetti destabilizzanti delle sue dichiarazioni bellicose.
Nasser si trova in difficoltà. Come leader principale del mondo arabo non può rimanere inattivo, salvo vedere messa in discussione la sua leadership ed il suo prestigio. Da qui la decisione di dispiegare truppe nel Sinai e di chiedere il ritiro/ridispiegamento delle forze di interposizione Onu. La richiesta viene accettata un po' troppo prontamente ed in modo radicale (escludendo la possibilità di un ritiro parziale) dal segretario generale dell'Onu. Il blocco degli stretti di Tiran deciso da Nasser subito dopo il ritiro delle forze Onu è l'elemento scatenante della guerra. In realtà la diplomazia si era immediatamente attivata e gli Usa erano impegnati in uno sforzo di mediazione. Il vice presidente egiziano era atteso per il mercoledì 7 giugno a Washington dal segretario di stato Dean Rusk, per colloqui circa la riapertura degli stretti. Questi colloqui non avvennero mai perché Israele attaccò il lunedì 5 giugno.
Chi ha voluto la guerra? La risposta a questa domanda non è semplice, anche perché diverse e contrastanti sono le 'narrazioni'. Da parte israeliana si è sostenuto per molto tempo che si è trattato di una guerra di difesa in cui Israele è stato obbligato ad entrare per difendere la propria esistenza. In realtà che si sia trattato di un attacco israeliano è fuori discussione. Il problema è piuttosto se questo attacco ne abbia anticipato uno arabo o no, e se la sensazione di minaccia incombente diffusa in Israele, anche a seguito dei bellicosi proclami diffusi dai media arabi, in particolare egiziani, fosse oggettivamente giustificata o no.
Sembra ragionevole affermare che "[m]olti dei partecipanti [...] erano riluttanti ad entrare in guerra. I leader israeliani non credevano allora nella dottrina della "profondità strategica", cioè protezione garantita dal possesso di territorio; questo venne dopo. Gamal Abder Nasser, il presidente egiziano, era andato accrescendo la retorica circa la distruzione di Israele nel tentativo di mantenere la sua posizione come leader "pan-arabo", ma in realtà continuava ad avvertire i suoi alleati che Israele era ancora troppo forte perché la si potesse attaccare. Il re di Giordania, Hussein, aveva avuto colloqui segreti con esponenti israeliani, i quali consideravano nel loro interesse sostenere il suo regime" (The Economist, 24/05/07).
I militari israeliani (Rabin, capo di stato maggiore, e Dayan) ebbero un ruolo predominante nella decisione di attaccare. In realtà ci fu uno scontro generazionale. Da una parte la vecchia leadership politica, formata da ebrei provenienti dall'Europa orientale, con un atteggiamento più cauto e preoccupato, e dall'altra i militari, più giovani, spesso nati in Palestina, che sostenevano un posizione più aggressiva. Lo scontro era piuttosto di mentalità che di tipo tattico. Rabin chiamava Eshkol (il primo ministro) ed i suoi ministri gli "ebrei", accusandoli di avere ancora una mentalià da diaspora. Eshkol da parte sua chiamava i generali "Preissn" (Prussiani, in Yiddish). A un certo punto si è anche temuto un colpo di stato o comunque un ammutinamento da parte dei militari. Contro una ipotesi di questo tipo era ad un certo punto intervenuto anche Ben Gurion, fino alla fine contrario all'attacco. Segno della fortissima pressione dei militari nei riguardi di Eshkol la nomina a ministro della difesa del falco Dayan pochi giorni prima dell'attacco.
Il conflitto si concluse in 6 giorni con una clamorosa vittoria israeliana. In realtà i suoi effetti si sarebbero manifestati nel tempo, in modo drammatico ed imprevisto, fino ad oggi. Come dice Norman G. Finkelstein ("Image and reality of the Israel-Palestine conflict", Verso 1995), "La guerra del giugno 1967 ha rappresentato un punto di svolta decisivo nella storia del moderno Medio Oriente. Ha ridefinito i contorni del conflitto arabo-israeliano nonché i termini della sua soluzione".
L'effetto forse più rilevante è una sorta di spostamento in avanti del punto nodale, in termini storici, del conflitto. Prima il punto nodale era il 1948, con la proclamazione dello Stato di Israele e la Nakba, la catastrofe palestinese con il conseguente problema dei profughi. Fino ad allora era la legittimità di Israele tout court in discussione. Dal '67 in poi il punto nodale del conflitto diventa l'occupazione. L'occupazione e la restituzione dei territori occupati è ormai la chiave per la soluzione del conflitto. Sarà prima l'Egitto a stabilire relazioni diplomatiche in cambio della restituzione del Sinai, seguirà poi la Giordania, con la rinuncia alla sovranità sulla Cisgiordania occupata. Se la Siria non riconosce ancora Israele, non è perché non ne riconosca la legittimità in sé, ma semplicemente perché Israele non è stato finora disposto ad una restituzione integrale dei territori conquistati nel 1967. Nei fatti (anche se non nella retorica dei leader arabi o, più recentemente, islamici), come effetto della guerra, Israele viene legittimato e la sua esistenza diviene un fatto assodato, non più messo in discussione.
Collegato a questo è il fatto che dopo la guerra, il conflitto cesserà a poco a poco di essere un conflitto fra stati, Israele da una parte e gli stati arabi dall'altra. Diventa sempre di più un conflitto fra uno stato ed un movimento di liberazione. Da conflitto relativamente simmetrico, anche se con forte squilibrio di forze, diventa un conflitto strutturalmente asimmetrico.
Infine la guerra e soprattutto la conseguente occupazione scatena delle dinamiche nelle due parti del conflitto che farà crescere il peso delle frange religiose più estremiste e fondamentaliste: l'elemento religioso diventa sempre più rilevante nel conflitto.
Ma la guerra non è solamente un punto di svolta per il conflitto, lo è, in modo diverso, per tutte le parti coinvolte nel conflitto, per il mondo arabo in generale, per i palestinesi e per gli israeliani.
All'interno del vasto mondo arabo, è lo stesso sogno di una unità pan-araba, tanto vagheggiato da Nasser, che svanisce, lasciando posto alle politiche dei singoli stati. Nei fatti, paradossalmente, la guerra dei sei giorni è l'espressione dell'ultimo atto concreto di solidarietà pan-araba. Cessato il sogno di una unità pan-araba, è l'Islam che diventa l'elemento unificante, quello che fornisce identità, almeno per le masse arabe. È dall'Islam che nascono nuovi progetti politici. La nascita di Hamas ed il suo rafforzarsi fino alla vittoria delle elezioni politiche del 2006, sono uno degli effetti di lungo termine della nuova situazione creatasi dopo la guerra dei sei giorni. Ma, anche se in forma più indiretta, lo stesso si può dire per la nascita di Hizbollah in Libano.
Non meno significativo è il cambiamento che la guerra rappresenta per i palestinesi. È dopo la guerra che Fatah prende il controllo dell'OLP e nasce così un movimento di liberazione palestinese non più dipendente dagli stati arabi e dai loro interessi nazionali. Yasser Arafat finirà per sostituire Nasser come il leader carismatico verso cui si rivolgono i sogni e le speranze di riscatto delle masse arabe. La battaglia di Karameh del marzo 1968 ebbe un ruolo particolarmente importante in questa crescita della resistenza palestinese nell'immaginario arabo. Nell'insediamento palestinese di Karameh, un ampio contingente israeliano, che aveva oltrepassato il confine per una rappresaglia, fu fermato dai resistenti palestinesi e dai giordani. Un momento di riscatto per l'orgoglio arabo ferito l'anno prima.
Accanto a questi effetti positivi per il popolo palestinese ce ne sono altri molto più problematici: la sua ulteriore frammentazione, la sua militarizzazione, e la caratterizzazione del movimento di liberazione palestinese come movimento in esilio. Prima della guerra il popolo palestinese era fondamentalmente diviso in due gruppi, la piccola porzione rimasta all'interno di Israele ed il resto, la grande maggioranza, vivente in una ampia area araba, con un suo baricentro in Cisgiordania e Gaza. Si tratta di uno spazio articolato in diversi stati, ma sostanzialmente unitario. Dopo il 1967 la Cisgiordania e Gaza, cioè ciò che rimaneva della Palestina dopo la formazione dello stato di Israele, si trovano separate dal resto della diaspora palestinese. I palestinesi che vivono una vita “normale”, sia pure sotto occupazione israeliana, da un lato, e quelli che vivono nell'esilio dei campi profughi dall'altro. È comprensibile in questa situazione che la resistenza si caratterizzi soprattutto come resistenza armata e come movimento in esilio. Questo processo porterà nel tempo ad una divaricazione fra questa resistenza e quella più politica (sia secolare che islamica) che si sviluppa nei territori occupati, divaricazione che, almeno in parte, è alla base degli accordi di Oslo, del loro fallimento e della drammatica situazione di strisciante guerra civile che si vive oggi a Gaza ed in Cisgiordania.
Non meno consistenti sono stati gli effetti della guerra nella società israeliana. Si accresce il ruolo dei nazionalisti più estremisti e soprattutto di quelli religiosi. Il fatto che la Cisgiordania ospiti i principali luoghi biblici (il muro del pianto, la tomba dei patriarchi di Hebron, la tomba di Rachele a Betlemme) dà un senso messianico alla vittoria. Nel quotidiano Ma’ariv, il giornalista Gabriel Tzifroni descrisse così la “liberazione” di Gerusalemme: “Il Messia è arrivato a Gerusalemme ieri – era stanco e grigio, e guidava un carro armato” (riportato da David Remnik, “The Seventh Day”. The New Yorker 1/6/07). Non stupisce che subito inizino i tentativi di costruire insediamenti nei nuovi territori. Inizialmente si tratta di tentativi bloccati dall'esercito, ma presto questa diventerà una politica implicitamente o esplicitamente sostenuta dai diversi governi che si susseguiranno a Gerusalemme.
Un ulteriore effetto importante, con valenze diverse, negative ma anche positive, della conquista della Cisgiordania e di Gaza, e della successiva occupazione è stato l'avere portato il conflitto all'interno della stessa società israeliana. Negative per le ricadute di degrado morale che il tenere assoggettato un altro popolo necessariamente comporta. Questo è un tema che è stato spesso dibattuto all'interno di Israele, e che ha trovato una rilevante eco anche nella stessa stampa israeliana. Positive per la nascita all'interno di Israele di un significativo, anche se minoritario, movimento pacifista con iniziative e mobilitazioni congiunte israelo-palestinesi.
Infine, e questo è un effetto di particolare rilevanza, la guerra dei sei giorni costituisce un momento di passaggio fondamentale per i rapporti fra Israele e gli stati Uniti. Sebbene già a partire dal 1964, con la presidenza Johnson, si può notare un avvicinamento tra gli Stati Uniti ed Israele, è con il 1967 che cambiano le relazioni tra i due paesi. Prima di allora Israele non era considerata una pedina centrale nella politica estera americana che era molto preoccupata di non alienarsi gli stati arabi. A questo corrispondeva un limitato interesse della comunità ebraica americana per Israele: solamente un americano su venti si dichiarava interessato a visitare Israele prima del 1967. L'efficienza e la potenza militare dimostrate da Israele nel giugno 1967 fecero sì che a Washington si cominciasse a considerarla come una importante risorsa strategica. Corrispondentemente cambiò l'atteggiamento della comunità ebraica americana: come scrisse Norman Podhoretz, allora direttore di Commentary, il più importante periodico ebraico americano, dopo la guerra del 1967 Israele divenne “la religione degli ebrei americani”.