L'accordo della Mecca ed il nuovo governo palestinese
Giorgio Gallo
Almeno per ora il rischio di una guerra civile palestinese sembra
scongiurato. Il 15 febbraio scorso il primo ministro palestinese Aniyeh
ha rassegnato le dimissioni del suo governo ed ha ottenuto il
reincarico dal presidente Mahmoud Abbas per la formazione di un governo
di unità nazionale.
È il primo effetto concreto dell'accordo della Mecca raggiunto
la settimana precedente, con la mediazione dell'Arabia Saudita, dal
presidente palestinese Mahmoud Abbas, dal primo ministro Ismail Aniyeh
e dal leader di Hamas in esilio Khaled Meshal. Sono stati così
interrotti gli scontri armati fra le milizie di Hamas e quelle di
Fatah, scontri che ad oggi hanno causato oltre 100 morti.
L'accordo ha la forma di una breve lettera del presidente al primo
ministro in cui si afferma che il nuovo governo dovrà
"rispettare" le risoluzioni internazionali e i precedenti accordi
firmati dall'Olp con esplicito riferimento a quelli con Israele. Si
dice anche che il governo dovrà operare nell'interesse del
popolo palestinese per la realizzazione dei suoi obiettivi nazionali, e
qui si fa riferimento anche al "documento di riconciliazione
nazionale". Si tratta del cosiddetto "documento dei prigionieri"
firmato lo scorso maggio da dirigenti delle fazioni palestinesi
rinchiusi nelle prigioni israeliane. In esso si afferma che "Il popolo
palestinese, in patria e nella diaspora, aspira a liberare la propria
terra ed a realizzare la propria autodeterminazione, incluso la
costituzione di uno stato indipendente in tutti i territori occupati
nel 1967, e ad assicurare il diritto al ritorno per i rifugiati e
la liberazione di tutti i prigionieri e detenuti". Questa frase
è stata da molti commentatori considerata come un riconoscimento
implicito dello stato di Israele purché all'interno dei confini
del 1967. Da qui l'importanza del riferimento a questo documento.
È tuttavia necessario essere molto cauti: la situazione è
fortemente deteriorata, ed il livello di ostilità ed odio fra le
diverse fazioni è tale che ci vorrà del tempo per
ritornare ad una normale dialettica politica.
Particolarmente preoccupante è la presenza di ingenti
quantità di armi e la difficoltà di controllare i diversi
gruppi armati che rispondono non solo a fazioni politiche, ma anche a
singoli leader (vedi il caso di Dahlan a Gaza), o a clan familiari.
Diversi degli episodi di violenza interna vanno ricondotti
proprio a scontri e vendette fra clan familiari.
A tutto questo si aggiunge la debolezza delle strutture politiche
palestinesi, e lo stesso fatto che l'accordo sia stato realizzato in
Arabia Saudita è un preoccupante segno di questa debolezza. Il
ruolo fondamentale dell'Olp era stato proprio quello di garantire al
popolo palestinese una rappresentanza autonoma dagli stati arabi, che
venivano visti più attenti ai propri interessi che a quelli
palestinesi. Ed in effetti con la leadership di Arafat questa
capacità di decisioni autonome da parte palestinese era stata
particolarmente evidente. Oggi è invece sempre più chiara
la debolezza palestinese ed il coinvolgimento dei paesi circostanti,
l'Egitto soprattutto, ed ora anche l'Arabia saudita.
Un ruolo particolarmente rilevante nel fomentare gli scontri hanno
però avuto le difficoltà economiche dovute al
boicottaggio del governo palestinese da parte della comunità
internazionale e di Israele. La sospensione degli aiuti economici ha
portato al collasso la già fragile economia palestinese. Questa
è stata certamente la principale causa dell'esplosione di
violenza interna in Palestina, soprattutto perché
contemporaneamente alla sospensione degli aiuti al governo palestinese,
venivano forniti finanziamenti ad Abbas ed al suo partito in funzione
anti Hamas. Ad esempio su Haaretz del 5/1/07 si legge che gli Usa
forniranno 86 milioni di dollari in aiuti alle forze di sicurezza
fedeli a Mahmoud Abbas. Questi soldi, secondo quanto riporta un
documento del governo Usa, verranno utilizzati per «assistere la
presidenza dell'autorità palestinese nell'adempimento degli
impegni previsti dalla road map di smantellare le infrastrutture del
terrorismo e di stabilire la legge e l'ordine nella Cisgiordania e in
Gaza»
Amira Hass in un suo articolo del 9
febbraio scorso fa riferimento ad un documento presentato il 12
gennaio scorso dal Ministro della Difesa israeliano e dal Coordinatore
della Attività di governo nei Territori (COGAT), avente per
oggetto l'annuncio di misure per migliorare la vita quotidiana dei
palestinesi. Significativamente il primo paragrafo riguarda le misure
per il rafforzamento del presidente Abu Mazen: fra di esse
"l'accelerazione delle procedure per l'ingresso nei territori di
donazioni (security equipment) per la guardia presidenziale", e
l'eliminazione degli ostacoli ai "movimenti dei VIP palestinesi".
Purtroppo le reazioni israeliane ed americane all'accordo della Mecca
non sono incoraggianti. Si insiste sull'accettazione formale dei tre
punti del "quartetto" (1), e cioè:
riconoscimento dello stato di Israele, rinuncia alla lotta armata ed
accettazione degli accordi intercorsi fra Olp ed Israele. Vediamo di
esaminare questi tre punti in dettaglio.
Il primo punto, quello del riconoscimento di Israele è per certi
versi il più critico. Dietro ci sono due problemi, uno tattico
ed uno di principio. Il primo riguarda il fatto che il riconoscimento
di Israele è l'unica vera carta che i palestinesi hanno in mano.
Lo scambio che porterà alla pace consisterà da parte
israeliana nella fine dell'occupazione, permettendo così la
nascita di uno stato palestinese, ed in qualche forma di riconoscimento
dei diritti dei profughi (compensazioni più che un effettivo
ritorno, almeno per la maggioranza dei profughi), e da parte
palestinese nel riconoscimento di Israele e di conseguenza nel
riconoscimento della fine del conflitto.
Più critico è l'aspetto di principio. Esso ha a che
vedere con l'immagine che le due parti hanno del conflitto. Israele
tende a considerare il conflitto come nato essenzialmente nel 1967, con
l'occupazione della Cisgiordania e di Gaza. I palestinesi considerano
necessario risalire invece almeno fino alla guerra del 1948. Le
implicazioni sono enormi. Dal punto di vista israeliano sono i
territori occupati l'oggetto del conflitto (territori contestati
vengono definiti da Israele), ed una soluzione che preveda la
restituzione del 90%-95% di questi territori viene considerata (come
affermato da Barak in occasione delle trattative di Camp David del
2000) molto generosa. Dal punto di vista palestinese all'origine del
conflitto è piuttosto l'evento bellico che ha portato alla
costituzione dello stato di Israele sul 78% della Palestina del mandato
britannico, e che ha creato circa 750.000 profughi frutto di una dura e
sistematica pulizia etnica (2). Da qui
l'indisponibilità palestinese, o almeno di una consistente parte
dei palestinesi, a riconoscere Israele se non nel quadro di accordi di
pace che prevedano la totale restituzione del 22% del territorio
rimasto nel '48 in mani arabe ed una qualche forma di soluzione del
problema dei profughi.
In realtà la posizione di Hamas anche su questo punto è
molto più pragmatica di quanto non si voglia fare credere. In
una intervista
rilasciata lo scorso gennaio alla Reuters, il leader di Hamas, Khaled
Meshal, ha dichiarato ripetutamente che l'obiettivo palestinese
è la costituzione di uno stato nei confini del 1967, che in
questo momento il problema non è il riconoscimento di una
entità o stato chiamato Israele che esiste e continuerà
ad esistere nel resto della Palestina come un "dato di fatto", ma
piuttosto il fatto che non esista ancora lo stato palestinese.
Non è difficile leggere dietro queste parole la
disponibilità ad un modus vivendi con Israele che nel tempo
porti anche ad un riconoscimento formale. D'altra parte la
disponibilità a trattare, continuamente espressa da Hamas,
è già una forma di riconoscimento, e la diplomazia sia
israeliana che internazionale dovrebbe essere ben capace di distinguere
fra posizioni di principio e la realtà che dietro di esse si
cela.
Sulla rinuncia alla lotta armata si possono dire cose simili
distinguendo fra posizioni di principio e comportamento. Se da un lato
Hamas non rinuncia in linea di principio all'uso delle armi (ma va
detto che anche a questo proposito l'esempio che viene da Israele non
è certamente incoraggiante), tuttavia nella pratica è da
circa due anni che rispetta un cessate il fuoco unilaterale. Inoltre
Hamas ripetutamente ha offerto ad Israele una tregua di lunga durata in
cambio del ritiro entro i confini del 1967 e della soluzione del
problema dei profughi.
Infine anche per quel che riguarda il riconoscimento dei precedenti
accordi fra Israele ed Olp, c'è uno scarto fra dichiarazioni di
principio e comportamenti pratici. Già il fatto di avere
partecipato alle elezioni significa un accettazione del quadro previsto
dagli accordi di Oslo. L'accordo della Mecca poi comporta una
accettazione implicita di tali accordi e comunque l'impegno ad
"onorarli".
Non è strano, in questa situazione, che molte voci, all'interno
ed all'esterno di Israele, si siano levate chiedendo ad Olmert di
cessare il boicottaggio e di verificare la disponibilità di
Hamas a trattare, basandosi più sui comportamenti che sulle
dichiarazioni di principio. Proprio in questa direzione vanno due
articoli apparsi in questi ultimi giorni: uno di Meron Benvenisti (Haaretz, 1 marzo 2007)
in cui si affronta il problema del riconoscimento, ed uno sull'Economist
in cui si parla del nuovo governo palestinese.
Purtroppo però Israele, sostenuta dagli Stati Uniti, sembra
indisponibile a qualsiasi forma di apertura. Ma forse il vero obiettivo
di Israele, o almeno di una parte del suo governo, va al di là
della semplice sconfitta di Hamas. Si vuole creare una situazione di
instabilità e scontro che indebolisca tutta la dirigenza
palestinese, così da potere continuare ad affermare che non
c'è nessuno con cui dialogare e rinviare qualsiasi serio
discorso di pace. Indicativo il fatto che, mentre Fatah viene
rafforzata militarmente, non viene fatta da parte israeliana nessuna
concessione che permetta di rafforzare Abbas di fronte all'opinione
pubblica palestinese. Intanto il governo israeliano annuncia un bando
per la creazione di 44 nuove unità abitative nell'insediamento
di Ma'aleh Adumim (3), ed emergono piani per la
creazione a Gerusalemme Est di un nuovo insediamento di 11.000
unità abitative per ebrei ultraortodossi (4).
(1) Con questo termine si intende il gruppo formato da
Stati Uniti,
Europa, Russia e Nazioni Unite che ha preparato il piano di pace noto
come "road map".
(2) Su questo rimandiamo a Benny Morris, "The birth of the
Palestinian refugee problem, 1947-1949", Cambridge University Press,
1987, ed a Ilan Pappe, "The
ethnic cleansing of Palestine", Oneworld Publications, 2006.
(3) Ma'aleh Adumim è uno dei più grandi
insediamenti israeliani. Tutto su terre espropriate ai vicini villaggi
palestinesi, Ma'aleh Adumim si estende ad est di Gerusalemme nella
direzione di Gerico, dividendo così praticamente in due la
Cisgiordania. Per ulteriori informazioni rimandiamo al rapporto "On The
Way To Annexation: Human Rights Violations Resulting from the
Establishment and Expansion of the Ma'aleh Adumim Settlement" della Ong
israeliana B'Tselem, che è scaricabile dall'indirizzo web http://www.btselem.org/english/publications/Index.asp?TF=06.
(4) Meron Rapoport, "Gov't promoting
plan for new ultra-Orthodox East Jerusalem neighborhood", Haaretz,
28/02/2007.