Il mito Sharon

L'emorragia cerebrale che ha colpito Sharon e la sua ormai definitiva uscita dalla vita politica ha scatenato un'orgia di retorica sulla stampa. Articolo dopo articolo si sta costruendo il mito di Sharon uomo di pace, il falco che si è trasformato in colomba, il nuovo De Gaulle. Certo Sharon è in Israele un leader popolare e carismatico, e possiamo capire che il suo lottare per la vita in un letto di ospedale possa suscitare grande emozione. Possiamo anche capire come il problema della successione in un momento particolarmente cruciale per quello Stato possa suscitare apprensione.
Forse vale però la pena ripercorrere alcuni passi della storia di quest'uomo che fin dall'inizio si è distinto per la carica di violenza ed aggressività nei confronti degli arabi. Una delle sue principali azioni negli anni '50, a capo della famigerata unità 101, fu il massacro di Qibiya, villaggio della Cisgiordania vicino a Qalkilliya. Circa 45 case furono fatte saltare in aria con i loro abitanti all'interno: morirono 67 persone, uomini, donne e bambini.  Nel 1971 ha portato poi l'ordine a Gaza: in circa sette mesi, 120 palestinesi morti, 800 arrestati e qualche decina deportati. Ma il nome di Sharon rimarrà indissolubilmente legato alla invasione del Libano del 1982 ed alla strage di Sabra e Shatila. Come ministro per l'abitazione negli anni '90 è stato responsabile dell'espansione degli insediamenti nei territori occupati e nel 2000 la sua provocatoria passeggiata nella spianata delle moschee ha dato fuoco alle polveri della seconda intifada.
Questo è il curriculum di Sharon, per lo meno dello Sharon di ieri. E quello di oggi?
Il giornalista neocon americano Hitchens ha scritto che nel conflitto Israelo-Palestinese ci sono state sempre solo quattro alternative. La prima è lo status quo, che significa apartheid più colonizzazione, cosa che molti considerano nel lungo termine inaccettabile. La seconda è un unico stato in cui tutti abbiano uguali diritti, ma questo significherebbe la fine del sionismo. La terza è la distruzione o l'espulsione di uno dei due popoli da parte dell'altro. La quarta infine è la costituzione di uno stato palestinese accanto a quello israeliano. Quest'ultima soluzione è quella sostenuta ufficialmente dall'Olp ed appoggiata da una presumibile maggioranza di israeliani.
Per gran parte della sua vita Sharon ha sostenuto la prima di queste opzioni, con occasionali flirt con la terza, quella dell'espulsione dei palestinesi. La sua recente conversione alla quarta nasce da realismo politico e dalla consapevolezza del problema demografico: nel giro di pochi anni in Palestina il numero degli arabi supererà quello degli ebrei. Lui stesso ha ammesso che "da qui (il governo, n.d.r.) si vedono cose che da lì non si vedono".
Ma forse vale la pena chiedersi se la quarta ipotesi, quella dei due stati, sia una unica ipotesi o non contenga diverse varianti. In realtà le varianti che sono state proposte negli anni sono tante. Possiamo, schematizzando un po', ricondurle a due filoni principali. Da un lato c'è il Piano Allon e le proposte che si muovono sul suo solco, e dall'altro le soluzioni basate sul ritorno alla situazione pre-1967 con eventuali limitati aggiustamenti, l'ultima delle quali è quella nota come accordo di Ginevra.
All'indomani della guerra dei 6 giorni, il 27 luglio 1967, il ministro del lavoro israeliano Ygal Allon presentò un piano che prevedeva l'annessione da parte di Israele di diverse parti della Cisgiordania, fra cui Hebron e la valle del Giordano. Gerusalemme e l'area circostante era già stata annessa un mese prima. Mai ufficialmente approvato, questo piano è stato tuttavia il costante punto di riferimento di coloro che capivano che l'occupazione, con il suo pesantissimo costo economico e morale, non avrebbe potuto durare all'infinito, ma che trovavano difficile rinunciare al progetto sionista di conquista di tutta la Palestina. Nel piano originale non si parlava di stato palestinese, ma piuttosto di restituzione della aree non annesse alla Giordania. Oggi, non essendo più percorribile l'ipotesi Giordania, si parla di uno stato palestinese, ma la sostanza non cambia: i territori lasciati ai palestinesi sarebbero comunque costituiti da enclave fra loro separate, comprendenti solamente le porzioni più densamente abitate dei territori occupati, senza Gerusalemme; inoltre lo stato palestinese non avrebbe il controllo delle proprie frontiere.
È questa la soluzione che Sharon ha abbracciato nell'ultimo anno, ed è questo che ha cercato di realizzare nel terreno in modo unilaterale, con il ritiro da Gaza e soprattutto con la costruzione del muro e l'espansione degli insediamenti in Cisgiordania. Forse questo è il massimo che l'opinione pubblica israeliana è disposta ad accettare oggi. Forse Israele potrà sperare di imporre questa soluzione, magari come mascherata da soluzione transitoria, alla sempre più debole dirigenza di Al Fatah; ma certamente non riuscirà a farla accettare alla popolazione palestinese. La conseguenza sarà la continuazione della resistenza armata, con ulteriori sofferenze e violenze; ed altre vittime, da una parte e dall'altra, si aggiungeranno alle tante che questo conflitto ha già prodotto.
Forse bisognerebbe essere più cauti prima di parlare di "Sharon, uomo di pace"!