Pace attraverso mezzi pacifici
Pace attraverso mezzi pacifici. È il titolo di uno dei
principali libri del teorico della nonviolenza Joan Galtung. Sono tanti
i motivi che possono essere addotti a sostegno della nonvioleza come
metodo di lotta. Certamente c'è una motivazione etica: la
violenza è in se stessa un male e quindi non può essere
giustificata, cioè resa giusta, da nessun fine, per quanto
giusto e nobile. Ma ci sono anche motivazioni pratiche, di efficacia,
sia nel breve termine che nel lungo termine.
Innanzitutto c'è il fatto che una modalità nonviolenta di
lotta riduce il livello complessivo della violenza. Il ciclo "azione
violenta - rappresaglia" è tipico di quasi ogni conflitto;
è un ciclo che tende a propagarsi fino al punto in cui ciascuna
delle due parti può legittimamente sostenere che la propria
violenza altro non è che la giusta risposta alla violenza
dell'altra. La nonviolenza non solo riduce la violenza del conflitto
nell'immediato, ma può anche avere l'effetto di ridurne la
durata: la violenza subita aumenta infatti l'ostilità e la
determinazione delle parti, non fosse altro per la paura di ciò
che accadrebbe nel caso di cedimento o sconfitta.
Ma c'è un altro, e per certi versi più forte, motivo che
gioca a favore della lotta nonviolenta, ed ha a che vedere con le
dinamiche che la violenza innesca all'interno della stessa
società che la pratica. Al di là delle espressioni
retoriche sulla lotta di popolo, la lotta violenta per sua natura
privilegia l'elemento militare ed i gruppi armati, necessariamente
minoranze che spesso operano nella segretezza, e scoraggia il
coinvolgimento di tutto il popolo e la sua partecipazione attiva alla
lotta. Nel caso di società già costituite politicamente
ciò porta alla militarizzazione crescente se non alla
fascistizzazione, e certamente ad una diminuzione del tasso di
democrazia. Nel caso di società in costruzione (come accade
nelle lotte di liberazione) porta facilmente alla realizzazione di
strutture statuali autoritarie e oppressive, e, in certi casi, a lunghi
periodi di caos per la difficoltà di disarmare i gruppi armati
che si vedono privati del potere e del ruolo che negli anni della lotta
avevano conquistato.
Tutto questo lo abbiamo visto e lo continuiamo a vedere, come in un
caso da manuale, in Israele-Palestina.
Da un lato c'è la progressiva riduzione del livello di
democrazia in Israele, con una crescente militarizzazione ed una
diminuzione degli spazi di libertà e della tolleranza verso il
dissenso. Di questo abbiamo già ampiamente trattato in una delle
precedenti note.
Dall’altro effetti simili e per certi versi ancora più
preoccupanti si vedono anche nella parte palestinese, soprattutto ora
dopo che l’evacuazione israeliana da Gaza ha dato nuovo impulso alla
costruzione delle strutture di uno stato palestinese. In una
dichiarazione di Amnesty International dell'inizio di ottobre si legge:
«Le lotte fra gruppi armati palestinesi hanno raggiunto un
livello senza precedenti e mettono in modo irresponsabile in pericolo
la vita dei civili palestinesi nella striscia di Gaza. Negli ultimi
giorni gli scontri fra le forze di sicurezza palestinesi e gruppi
armati quali quelli di Hamas , con armi estremamente potenti utilizzate
in zone densamente occupate, hanno ucciso o ferito dei civili che si
trovavano sul luogo».
In un recente articolo Khaled Duzdar, co-direttore palestinese
dell'IPCRI (Israel/Palestine Center for Resaerch & Information)
scrive: «il territorio palestinese è in uno stato di
anarchia che sta arrivando ad un livello che può essere
descritto come il "modello Somalia". [...] Le forze di sicurezza
palestinesi non controllano [il territorio] ed in certi casi sono state
esse stesse coinvolte in diversi incidenti con un uso improprio della
forza, così contribuendo al senso di caos totale».
Si tratta di una situazione che ha certamente la sua origine e causa
remota nell'occupazione che dura da quasi quaranta anni, che continua
ancora oggi e la cui fine non sembra purtroppo vicina. È
però una situazione che chiama in causa la dirigenza
palestinese, e che richiede una azione politica decisa e forte.
«Il Presidente Abbas - conclude l'articolo di Duzdar - deve fare
finire immediatamente questa situazione; senza ulteriori ritardi.
Altrimenti, la rapida disintegrazione ed il caos faranno di questo
periodo di governo un'altra esperienza di fallimento che il popolo
palestinese pagherà con ulteriori sofferenze».