La profezia di Kissinger
Si sono appena concluse le elezioni in Palestina, con la
scontata vittoria di Abu Mazen, il candidato di Fateh, anche se forse
con una percentuale, il 62.32%, inferiore a quella sperata.
L’inviato del TG1 ci ha spiegato che queste sono le prime elezioni
democratiche in Palestina. Non è del tutto vero: le precedenti
elezioni, nel gennaio del 1996, non erano state meno democratiche,
anche se allora l’enorme popolarità di Arafat, da poco tornato
dall’esilio, aveva lasciato poco spazio ad altri contendenti.
È vero però che negli anni successivi l’autocratismo, la
corruzione, la mancanza di separazione dei poteri ed il moltiplicarsi
dei servizi di sicurezza avevano minato la democrazia palestinese, la
cui crescita non era certo aiutata dall’occupazione e dalle politiche
repressive dei governi israeliani. Ricordo le parole di Abdel Shafi,
una delle personalità più prestigiose della vita politica
palestinese, che a Gaza alla fine del 1997, ci diceva che il primo
problema dei Palestinesi, il punto da cui partire, era il mettere
ordine al proprio interno e democratizzare la propria vita politica.
Da questo punto di vista le elezioni appena concluse rappresentano un
importante passo in questa direzione, anche se non mancano le ombre.
Principalmente la bassa affluenza alle urne, di poco inferiore al 50%
degli aventi diritto (i dati ufficiali parlano di circa il 70%, ma
fanno riferimento solamente a coloro che si erano registrati per
votare). E questo stesso risultato è stato raggiunto con un
prolungamento dell’apertura dei seggi ed una grossa mobilitazione nelle
ultime ore dei militanti di Fateh. Effetto dell’indicazione di
boicottare il voto data Hamas? O di poca fiducia nella la
possibilità di un vero cambiamento? O, più semplicemente,
il risultato degli ostacoli frapposti dall’occupazione isaeliana che,
ad esempio, ha reso quasi impossibile il voto alla popolazione di
Gerusalemme est? Forse un misto di tutte e tre le cose. In ogni caso un
segnale di cui bisognerà tenere conto: la democrazia non si
conquista una volta per tutte e non si esaurisce nel processo
elettorale; va costruita pazientemente giorno dopo giorno, creando
consenso e costruendo spazi sempre più ampi di partecipazione.
Forse più che lo scontato risultato di Abu Mazen è
rilevante il 19.80% ottenuto da Mustafà Barghouti. Medico,
fondatore di una importante Ong operante nella sanità, Barghouti
è l’esponente più di spicco di ‘Mubadara’, una forza
politica laica e democratica, espressione della società civile,
che ha fra i suoi fondatori alcune delle personalità palestinesi
di maggiore prestigio intellettuale e politico; fra esse lo scomparso
Edward Said ed Abdel Shafi, il capo della delegazione palestinese alla
conferenza di Madrid del 1991. ‘Mubadara’ si presenta come una terza
via democratica alternativa a Fateh da un lato e ad Hamas dall’altro.
Anche Barghouti, come Abu Mazen, è fautore di una lotta non
armata contro l’occupazione, ma punta soprattutto sulla mobilitazione
popolare e sulla crescita della società civile in una Palestina
laica e democratica. Ed in questa direzione ha affermato di volersi
muovere assumendo il ruolo di leader dell’opposizione, forte di un
supporto popolare che presumibilmente sarebbe stato maggiore se non
avesse prevalso l’esigenza di rafforzare il candidato che
realisticamente veniva visto come il sicuro vincitore.
È questa della via della democrazia la scommessa per il popolo
palestinese e presumibilmente la sua carta vincente. Israele
perderà il titolo di cui si è finora fregiata di “unica
democrazia nel medioriente” e l’occupazione apparirà chiaramente
di fronte all’opinione pubblica internazionale come l’elemento che sta
alla radice del conflitto. Questo fatto risulterà ancora
più evidente in un momento in cui la democrazia israeliana
appare in grande difficoltà. Se da un lato infatti si parla di
rischi di guerra civile con riferimento al conflitto fra
l’Autorità Palestinese ed Hamas, dall’altro rischi non meno
gravi corre Israele con gli appelli alla disubbidienza fino alla
ribellione armata lanciati dalle componenti più estremiste dei
coloni e del clero israeliani.
Già a metà degli anni ‘80, quando si parlava di possibili
elezioni nei territori occupati, Henry Kissinger ammoniva gli amici
israeliani sui pericoli delle elezioni. Prima o dopo, aveva detto, la
combinazione di un popolo, un territorio e di elezioni avrebbe
costretto Israele al ritiro nei confini del 1967. Oggi, dopo circa 20
anni e diverse migliaia di morti palestinesi ed israeliani, forse
è arrivato il momento per la realizzazione di questa profezia.
Non possiamo che augurarcelo!