L’accordo regionale
Nel loro “I palestinesi, la genesi di un popolo” (La Nuova Italia
Editrice, 1994), Baruch Kimmerling e Joel S. Migdal scrivono a
proposito della rivolta palestinese degli anni 1936-38, duramente
repressa dagli inglesi: “Se ai morti e agli esuli si aggiungono i
deportati o gli esponenti politici banditi dagli inglesi, i palestinesi
si ritrovarono orfani di quella classe dirigente che era riuscita a
dare una fisionomia alla loro società e al movimento nazionale,
e a farsi portavoce dei loro interessi sia all’interno del paese, che
in campo internazionale”. Questa distruzione di una intera classe
dirigente è fra le cause che spiegano sconfitta palestinese del
1948. Ci sarebbero voluti circa 30 anni perché una nuova
dirigenza cominciasse ad emergere nella diaspora palestinese, e molti
di più perché la resistenza dei palestinesi dell’interno
arrivasse a sfidare l’occupazione. Questo aveva fatto coltivare alla
dirigenza israeliana l’illusione che l’occupazione della Cisgiordania e
di Gaza potesse durare stabilmente. Così, attraverso una forma
di ‘apartheid’ da volto umano (l’occupazione benevola), si completava
il lavoro iniziato nel 1948, realizzando il sogno sionista della
colonizzazione/redenzione di tutta la terra d’Israele.
La politica del governo Sharon sembra che voglia, in modo nuovo ed
aggiornato, ricostituire quelle condizioni di stabilità che la
prima intifada e poi la seconda, ancora in corso, sembravano avere
rotto definitivamente. Questa politica ha due pilastri, la
frammentazione politica della società palestinese e la
frammentazione fisica del suo territorio.
Gli assassinii mirati dei dirigenti palestinese sono ormai un fatto che
si ripete quotidianamente, con il suo drammatico accompagnamento di
‘effetti collaterali’, le centinaia di vittime civili, uomini, donne e
bambini. Con l’assassinio a Damasco del leader di Hamas Ezzedin Sheikh
Khalil, la pratica si è ampliata anche al di fuori della
Palestina. Si vuole ricreare così quella situazione di
annichilimento di una intera classe dirigente che si era realizzata
negli anni precedenti alla costituzione dello stato di Israele. La
frammentazione del territorio e la creazione di piccoli e sovraffollati
‘bantustan’, di cui il muro è icona e strumento, completerebbero
l’opera.
Un possibile esito di questa situazione potrebbe essere una nuova
versione del regime di ‘apartheid’ che aveva già teorizzato la
minoranza bianca nel Sud Africa: un insieme di ‘bantustan’, separati
fra di loro, governati in modo autoritario da capi militari locali
disponibili alla collaborazione con Israele e da esso dipendenti per il
mantenimento del proprio potere. L’occupazione di tutta la Palestina da
parte di Israele diventerebbe così permanente.
Ma c’è un altra possibilità più preoccupante, di
cui si comincia a parlare in Israele, e che sarebbe sostenuta da alcuni
ambienti militari, quella del cosiddetto accordo regionale: Israele
raggiungerebbe un accordo con gli stati vicini, restituendo il Golan
alla Siria, parte della Cisgiordania alla Giordania e Gaza all’Egitto.
I palestinesi scomparirebbero come entità politica diventando
parte delle popolazioni di Giordania ed Egitto. In fin dei conti,
lo diceva già Golda Meir: “non esiste un popolo palestinese”!
Purtroppo l’attuale dirigenza palestinese, con la sua corruzione e le
sue faide interne, con la sua incapacità di riformarsi
innescando processi di crescita democratica, cosa per altro non facile
in una situazione di occupazione e di conflitto, si sta dimostrando
inadeguata a contrastare questa politica ed incapace di esprimere una
propria politica alternativa.