La trappola di Gaza
Il 6 giugno scorso il governo israeliano ha approvato il piano di
Sharon per il ritiro da Gaza, anche se in una versione ridotta: Non
è stato autorizzato il ritiro, ma solo l’inizio del processo di
pianificazione del ritiro, concluso il quale sarà presa dal
governo la decisione finale. Comunque è un fatto che, per la
prima volta, a livello di governo, si parli in modo concreto di
smantellamento di insediamenti.
Possiamo considerare questo un passo nella giusta direzione per la
soluzione del conflitto israelo-palestinese? Temo purtroppo che la
risposta debba essere negativa.
Il ritiro completo da Gaza era la naturale opzione nel 1994, all’inizio
del processo di pace di Oslo. La grande maggioranza della popolazione
israeliana lo avrebbe accettato. Avrebbe dato un importante segnale sia
ai palestinesi che all’opinione pubblica internazionale: Israele era
davvero disponibile al ritiro dai territori occupati ed allo
smantellamento degli insediamenti. E avrebbe anche avrebbe avuto un
rilevante effetto positivo sulla vita quotidiana dei palestinesi.
Invece Rabin rifiutò di farlo; poche migliaia di coloni
continuarono ad occupare circa il 40% della striscia di Gaza lasciando
ad oltre un milione di palestinesi il restante 60%.
La studiosa israeliana Tanya Reinhart vede in questa scelta la prova
che gli obiettivi degli accordi di Oslo erano il mantenimento del
controllo, in una forma diversa, dei territori occupati da parte di
Israele. Si tratta di uno dei “due poli della politica israeliana
[...]: mantenimento della presente situazione di apartheid sotto la
copertura di negoziati, o pulizia etnica ed evacuazione di massa” (T.
Reinhart, “Israel/Palestine - How to end the war of 1948”, Seven
Stories Press, 2002, p.222).
L’attuale mossa di Sharon si colloca in queste linee. Come osserva
lucidamente l’Economist (12 Giugno 2004), “L’interesse del governo
israeliano è di impegnarsi in un processo politico, o almeno in
qualcosa che ne abbia l’apparenza. Non fare nulla [...] comporterebbe
il rischio di assoggettare Israele ad una intollerabile pressione
esterna, soprattutto da parte degli Stati Uniti. [...] La migliore e
più sicura strategia per un governo israeliano è di dare
l’apparenza, ma solo l’apparenza, di un progresso verso l’indipendenza
palestinese. Invero, si può sostenere che questa è la
strategia adottata da ogni governo israeliano fin dalla conferenza di
pace di Madrid del 1991”.
In realtà questa dell’annunciato ritiro da Gaza è per i
palestinesi una trappola ben congegnata.
Israele incamera l’effetto annuncio e può portare avanti il
piano di colonizzazione della Cisgiordania. Come dice un editoriale non
firmato dell’autorevole quotidiano israeliano Haaretz (16 giugno 2004),
contemporaneamente alla mossa di Sharon, “nell’altra area palestinese -
la West Bank - si stanno svolgendo eventi che mettono in dubbio le
buone intenzioni del governo”. Nel villaggio palestinese di Walaja, a
sud-est di Gerusalemme, si sta costruendo un nuovo insediamento
ebraico; a nord-est della città continua la costruzione del
muro, con la separazione in due dei quartieri palestinesi di A-Ram e
Qalandiyah (tra l’altro questo taglierebbe fuori anche gli uffici della
Banca Mondiale e del consolato norvegese, che rifiutano di spostarsi);
sono stati stanziati i fondi per la costruzione, intorno
all’insediamento di Ariel, di un muro che entra in
profondità dentro la Cisgiordania, venendo così meno ad
impegni presi da Sharon nei riguardi dell’amministrazione Bush.
Se poi il ritiro, alla fine, venisse davvero realizzato, esso avrebbe
comunque effetti molto limitati sulla vita dei palestinesi: Israele
continuerà a mantenere il controllo dello spazio aereo, del mare
e di tutte le frontiere di Gaza; l’esercito israeliano
continuerà ad essere libero di operare nella striscia, e Gaza
così sarà una grande prigione a cielo aperto. Ma gli
effetti politici potranno essere particolarmente pesanti. Sia che il
potere a Gaza venga preso dal capo dei servizi di sicurezza, Muhammed
Dhalan, o da di Hamas, si rafforzerebbe la separazione fra Gaza ed il
resto dei territori occupati e si allontanerebbero le prospettive di
uno sviluppo democratico della società palestinese. Un’altro
passo verso il politicidio di cui abbiamo già parlato in questa
rubrica.