Politicidio e deumanizzazione

Giorgio Gallo

(Gennaio 2004)


14 gennaio 2004, Reem Saleh al Riyachi, 22 anni, madre di due figli, si uccide facendosi saltare in aria al posto di controllo israeliano di Erez, il passaggio principale fra israele e la Striscia di Gaza. Con lei muoiono quattro israeliani. Cosa spinge una giovane donna a lasciare la vita, i figli ed il marito in questo modo?
22 gennaio 2004, Muhsan Da’aor, 11 anni, si avvicina con amici alla rete che circonda uno degli insediamenti della Striscia di Gaza. I soldati sparano e il bimbo viene ucciso. Era di giorno; difficile credere che non si vedesse che si trattava di bimbi. Cosa spinge un giovane soldato a disprezzare tanto la vita altrui?

Una delle risposte a queste domande ha un nome: “politicidio”. Con questo termine Baruch Kimmerling, un acuto sociologo israeliano, definisce la politica del governo di Israele verso i palestinesi (“Politicidio - Sharon e i palestinesi”, Fazi editore, 2003). «Il politicidio è un processo che comprende un’ampia gamma di attività sociali, politiche e militari, che hanno come fine la distruzione dell’esistenza politica e nazionale di un’intera comunità di persone, negandole così ogni possibilità di autodeterminazione. I principali strumenti utilizzati per il raggiungimento di questo obiettivo sono le uccisioni, i massacri localizzati, l’eliminazione di gruppi di leadership e di gruppi d’élite, la distruzione fisica di istituzioni pubbliche e di infrastrutture, la colonizzazione del territorio, la morte per fame, l’isolamento politico e sociale, la rieducazione e una parziale pulizia etnica».

Il tentativo di distruggere le istituzioni, la vita politica e l’identità stessa del popolo palestinese ha come effetto il rafforzamento dei movimenti islamici più estremistici come Hamas, gli unici che possano fornire da un lato una identità e dall’altro delle strutture sociali funzionanti. Non stupisce allora che  oltre il 30% dei giovani palestinesi di Gaza si dichiari disponibile al suicidio come arma contro gli israeliani. E quale altra arma rimane quando gli spazi della lotta politica si chiudono?

Ma il politicidio del popolo palestinese, osserva Kimmerling, ha nel lungo termine un’altro drammatico effetto: il politicidio della stessa entità ebraica. la democrazia israeliana sta regredendo in un processo di fascistizzazione dello stato di Israele. Da un lato si assiste ad una «drastica riduzione delle libertà di espressione e una crescente tendenza a bollare come “tradimento” qualsiasi opposizione all’attuale linea politica», dall’altro si assiste ad un «crescente coinvolgimento dell’esercito nelle questioni politiche e nei mezzi di informazione».

L’altra faccia di questa fascistizzazione dello stato di Israele è il «processo di deumanizzazione dei palestinesi [che] si è diffuso in ogni settore della società israeliana. Ciò che era iniziato nell’IDF (l’esercito) e nei servizi di sicurezza dello Shin Bet, e diffuso agli altri settori del potere e dei media ..., ha ormai permeato ogni parte del tessuto sociale di Israele. Questo è apparentemente l’unico modo con cui uno stato possa continuare con la conquista e l’oppressione senza doversi troppo preoccupare di ciò che essa significa per i conquistati. ...Durante gli ultimi mesi, praticamente nessun giorno è passato senza che palestinesi venissero uccisi in scontri nei territori; dozzine di palestinesi, molti dei quali innocenti disarmati, sono morti ogni mese, anche durante i periodi in cui non c’erano attacchi terroristi. Le morti erano un fatto marginale nella vita pubblica israeliana. Una attitudine correlata è l’assoluta mancanza di rispetto per la dignità umana dei palestinesi» (Gideon Levy, “Daily dehumanization”, Haaretz 21/12/2003).
 
Come stupirsi allora se i bambini possano essere considerati possibili bersagli dai soldati israeliani?

Eppure nell’una e nell’altra società ci sono grandi riserve di umanità che ci permettono di non perdere la speranza. Voglio chiudere queste considerazioni con un fatto riportato dallo studioso e pacifista palestinese Mohammed Abu-Nimer (“Nonviolence and Peace Building in Islam, Theory and Practice”, University Press of Florida, 2003): «Nel febbraio 1989, nella città di Hebron in Cisgiordania, una pattuglia israeliana stava inseguendo un gruppo di “shabab” (giovani palestinesi fra i 10 ed i 20 anni, in prima fila nelle proteste di strada) dopo lanci di pietre. Nel corso dell’inseguimento un ragazzo era stato colpito ed ucciso. ... Un soldato israeliano si trovò tagliato fuori dalla pattuglia e circondato da un gruppo di shabab furiosi. Temendo per la propria vita, corse verso la casa più vicina e cominciò a colpire la porta col fucile. Una donna venne ad aprire e, vedendolo in pericolo, lo fece entrare impedendo agli shabab di entrare per attaccarlo. Con gli shabab intorno alla casa, lei gli servì un caffè ed aspettò che il gruppo si disperdesse in modo che lui potesse uscire senza rischi. La donna era la madre del ragazzo che era stato ucciso poco prima». Colui che aveva raccontato questo fatto ad Abu-Nimer aveva concluso: «La religione ed le nostre tradizioni ci permettono di mantenere la nostra umanità. ... Noi non diventeremo mai come gli israeliani e mai odieremo i nostri nemici .... Se il soldato tornasse di nuovo, la donna gli offrirebbe di nuovo un caffè».