Ritornare alla politica

Giorgio Gallo

(Ottobre 2003)

I cosiddetti accordi di Ginevra hanno segnato certamente, nel contesto del conflitto israelo-palestinese, qualcosa di nuovo rispetto alla ripetitiva ed atroce spirale di violenza che ci presentano giornalmente i media. L'accordo, frutto di due anni di trattative, ha fra i suoi principali artefici il laburista israeliano Yossi Beilin, ex ministro della giustizia del governo Barak, e Yasser Abed Rabbo, ex ministro dell'informazione palestinese, ma ha visto coinvolti anche diversi esponenti politici di spicco israeliani e palestinesi, fra cui l’ex segretario laburista Amram Mitsna', l’ex presidente laburista della Knessett Abraham Bourgh ed il deputato palestinese e dirigente di Al Fatah Kadura Fares.

Si tratta di un accordo discusso e certamente discutibile, con rilevanti limiti, ma anche con elementi positivi, di un accordo che, non avendo coinvolto i rispettivi governi, ha solo un valore politico, e quindi potrà al più servire come base di future trattative. Ma è proprio questo il principale merito dell’accordo:  quello di rimettere in moto la politica in una situazione in cui entrambe le parti (sia pure con una enorme ed atroce sproporzione di forze) sembrano bloccate sull'opzione militare.

Quella che la lotta militare e le sofferenze inflitte all’avversario finiranno per costringerlo a cedere è una pericolosissima illusione soprattutto in una situazione in cui, a ragione o a torto, entrambe le parti vedono in gioco non una posta sostanzialmente esterna (come ad esempio gli americani con il Vietnam, o gli stessi israeliani con l’occupazione del sud del Libano), ma le stesse condizioni della propria sopravvivenza. In questa situazione la spirale della violenza porta, piuttosto che al cedimento di una delle parti, all’irrigidimento di entrambe, con il rischio per Israele di soluzioni di tipo militare-fascista e per i palestinesi di quell’espulsione di massa di cui le destre israeliane parlano sempre più apertamente.

In un recente articolo su Ha’aretz, l’israeliano Uzi Benziman, dopo un attacco palestinese che ha portato alla morte di tre soldati israeliani, si chiede come sia possibile che la popolazione israeliana accetti questa situazione e continui a sostenere il governo di Sharon, e scrive: “Il terrore palestinese ha programmato la società israeliana per la volontà di vendetta e l’ha resa indifferente al prezzo che l’altra parte sta pagando per la sua aggressione. Questa attitudine si applica anche al modo con cui il pubblico reagisce alle sofferenze che lo scontro provoca all’interno. La indifferenza al significato morale del continuo spargimento di sangue e dell’insopportabile peso umano che esso impone alle sue vittime porta ad una situazione in cui viene a mancare la motivazione stessa per porvi fine”.

Credo che le stesse cose possano essere dette della popolazione palestinese, con la differenza che le sofferenze ed il numero delle vittime che essa subisce sono estremamente più alte. Se così non fosse non si capirebbe il fortissimo sostegno che la lotta armata e gli stessi attentati suicidi ricevono dai palestinesi. Secondo un sondaggio dello scorso aprile dell’organizzazione palestinese “Jerusalem Media and Communication Center” l’intifada nella sua presente forma, in cui si affiancano azioni dimostrative nonviolente ed azioni militari, ha un sostegno del 53%, mentre solamente il 24% degli intervistati ha dichiarato di volere una lotta popolare e non militare (quest’ultima forma di lotta è preferita dall’11%). È sintomatico che, mentre nel 1997 solamente il 24% dei palestinesi approvava gli attentati suicidi, oggi la percentuale di approvazione arriva al 60%. In una più recente inchiesta del prof. Halil Shkaki del “Palestine Center for Policy and Survey Research” di Ramallah,  alla domanda sull’attentato suicida del ristorante Maxim di Haifa, il 75% degli intervistati lo ha giustificato, almeno nelle attuali circostanze.

Eppure le inchieste dicono che la grande maggioranza degli israeliani vorrebbe la pace e, secondo l’inchiesta del prof. Shkaki citata prima, l’85% dei palestinesi è favorevole ad una mutua interruzione della violenza. Molti vogliono la pace, ma pochi credono davvero che sia possibile, accettando la violenza come inevitabile. In questo senso una rinascita del discorso politico può fornire finalmente una sponda ai vivaci, ma purtroppo minoritari, movimenti per la pace israeliani e a quella società civile che da tempo sostiene in Palestina una linea di resistenza popolare e nonviolenta.

Il documento di Ginevra ha il merito di superare la logica delle soluzioni interinali, tipiche del processo di Oslo e della ‘roadmap’, che sono state il modo con cui Israele ha mantenuto e rafforzato il suo controllo dei territori occupati, e di affrontare subito i nodi del problema: Gerusalemme, i confini ed il ritiro di Israele dagli insediamenti, il problema dei rifugiati. Alcune soluzioni sono certamente positive: ad esempio, a parte piccoli aggiustamenti  soprattutto intorno a Gerusalemme, i confini dello stato palestinese seguirebbero la linea verde del confine precedente al 1967. Eccessivamente macchinosa appare invece la soluzione prevista per Gerusalemme, e insoddisfacente il modo con cui viene risolto il problema dei profughi del 1948 e dei loro discendenti.

Si tratta comunque di un passo nella direzione giusta, quella di riaprire nelle due società il discorso politico sull’uscita dalla presente situazione di stallo, innescando un processo in cui potrebbe positivamente inserirsi l’opinione pubblica internazionale, ma anche l’Europa se riuscisse finalmente a sviluppare un’autonoma ed unitaria capacità di iniziativa politica.