Sperare nell'Europa


Giorgio Gallo

(Aprile 2003)

La guerra in Iraq è stata ufficialmente conclusa e si ritorna a parlare del conflitto israelo-palestinese. Un sostanziale passo avanti verso la soluzione di questo conflitto sarebbe essenziale per confermare la tesi di una guerra che avrebbe dovuto aprire la strada alla pace ed alla democrazia in tutto il Medioriente. Blair sembra ne sia convinto ed insiste con forza perché parta un nuovo processo di pace basato sulla cosiddetta 'mappa stradale' (road map) messa a punto dal 'quartetto' (Usa, Europa, Russia ed Onu).

Possiamo sperare che la pace finalmente giunga in quell'area martoriata e che il popolo palestinese veda finalmente la fine dell'occupazione? Purtroppo è molto difficile essere ottimisti ed è improbabile che l'iniziativa del 'quartetto' sia la mossa capace di innescare un vero processo di pace.

Per capire il perché di questo pessimismo, vale la pena riesaminare brevemente alcune delle caratteristiche degli accordi di Oslo, che hanno poi portato al fallimento del processo di pace, in particolare la natura fortemente graduale del processo previsto e la mancanza di obblighi definiti da parte di Israele.

Un processo molto lento e graduale diviene facilmente ostaggio degli estremisti di entrambe le parti. Da un lato gli attacchi suicidi hanno portato al rafforzamento della destra israeliana, dall'altro la politica di chiusura dei territori occupati, ha reso sempre più difficile la vita dei palestinesi, che pure avevano in grande maggioranza accolto con entusiasmo l'inizio del processo di pace. Tranne che per una élite vicina alla dirigenza dell'Autorità Palestinese (AP), il processo di pace ha significato un peggioramento delle condizioni di vita dei palestinesi: fra il 1994 ed il 1996 il Pil pro capite dei palestinesi era sceso di circa il 13% rispetto al livello pre-Oslo (oggi supera di poco il 50% di quel livello). Alla riduzione di reddito si è poi aggiunta la difficoltà di movimento fra le diverse parti della Cisgiordania e di Gaza a rendere sempre più difficile e frustrante la vita del palestinese medio.

La vaghezza degli accordi di Oslo ha permesso ad Israele, da un lato, di continuare nella politica di espansione degli insediamenti e di espropriazione di terre palestinesi e, dall'altro, di decidere come e quando implementare gli accordi, avendo come controparte un governo palestinese molto debole, senza un vero stato, a cui veniva chiesto solamente di tenere a bada la rabbia e la frustrazione della propria popolaziona. Frustrazione e rabbia che crescevano sempre di più, con la conseguenza di un rafforzamento delle componenti più estremistiche. Si è così alimentato (in parte scientemente) il ciclo della violenza e della radicalizzazione del conflitto.  

La presente 'mappa stradale' non sembra molto migliore degli accordi di Oslo. Gli obblighi per la parte palestinese sono abbastanza forti e stringenti, sia per quel che riguarda la fine delle azioni terroristiche e della resistenza armata, e quindi il controllo poliziesco della propria popolazione, sia per quel che riguarda l'assetto istituzionale dell'AP. E a questi obblighi corrisponde il controllo non di uno stato ma di piccole enclave separate tra di loro, almeno fino alla conferenza di pace internazionale, prevista per la fine del processo, quando si affronteranno i punti cruciali dei confini definitivi, dei rifugiati e di Gerusalemme. Invece ciò che si richiede ad Israele è molto vago e comunque limitato: accettare l'idea di uno stato palestinese, operare per riportare alla normalità le condizioni di vita dei palestinesi, congelare gli insediamenti e smantellare quelli eretti dopo il marzo 2001, ritirarsi dai territori palestinesi occupati dopo il 28 settembre 2000.

In questa situazione basterà un attentato o una riforma istituzionale non gradita, per permettere ad Israele di denunciare l'inadempienza palestinese e per bloccare il processo. E già il governo israeliano ha cominciato a mettere le mani avanti. Sharon ha spiegato che qualsiasi azione da parte di Israele sarà condizionata alla completa realizzazione da parte dei palestinesi delle condizioni richieste dal documento, ed il ministro israeliano del turismo, Benny Elon, del Blocco dell'Unione Nazionale, un partito di destra che propugna il 'trasferimento' dei palestinesi dalla Cisgiordania, sta partendo per gli Stati uniti per una campagna contro la 'mappa stradale' che viene definita un 'disastro per Israele'.

È vero che la valutazione dell'adempimento delle condizioni questa volta non è lasciata ad Israele solamente come nel caso degli accordi di Oslo, ma è demandata al 'quartetto', che dovrà però decidere all'unanimità. Gli Usa avranno  quindi un sostanziale diritto di veto, ed è molto improbabile che siano disposti a forzare la mano ad Israele: i falchi che gestiscono la politica americana sono molto vicini alle posizioni di Sharon; il prossimo anno ci saranno le elezioni presidenziali e difficilmente Bush farà qualcosa che gli possa alienare la lobby pro-Israele ed il voto delle comunità ebraiche. Per altro l'efficacia e la tempestività della lobby pro-Israele, l'AIPAC, si è fatta sentire subito:  315 congressisti ed 88 senatori hanno indirizzato lettere a Bush raccomandando che non si pressi troppo Israele prima di essere sicuri che i palestinesi abbiano fatto la loro parte.

Ci sono tutte le condizioni perché il ciclo della violenza innescato dal fallimento del processo di pace continui e venga ulteriormente alimentato piuttosto che interrotto (sono 15 i morti palestinesi nel giorno seguente la presentazione ufficiale della 'mappa stradale'), ... a meno che l'Europa non riesca finalmente a svolgere un ruolo forte ed incisivo, all'altezza del suo peso economico.  Possiamo almeno questa volta sperarlo?