Violenza e nonviolenza in Palestina

Giorgio Gallo

(Gennaio 2003)

Mentre scrivo queste righe Sharon ed il Likud stanno festeggiando la vittoria alle elezioni israeliane, e si danno per imminenti le dimissioni dello sconfitto leader laburista Mizna che aveva invano cercato di proporre una linea basata sulla ripresa de dialogo e delle trattative con i palestinesi.

Il governo della destra non ha portato la sicurezza promessa; anzi all'insicurezza si aggiunge un progressivo deterioramento della situazione economica. La paura e l'insicurezza però non aiutano a vedere le cose in modo razionale: ci si affida a chi promette di picchiare più forte (e questo vale purtroppo anche per la parte palestinese), anche se si tratta di un picchiare che appare privo di strategia politica, di prospettive.

Sono quasi tremila i morti (oltre i due terzi dei quali palestinesi) e molte decine di migliaia i feriti dall'inizio delle seconda intifada, ma sembra che nessuno voglia davvero fermarsi. Sempre più appare chiaro che si è innescato un processo che porta alla catastrofe (una seconda nakba?), una catastrofe per gli uni e per gli altri, irrimediabilmente uniti.

Ma è davvero questa l'unica possibilita? Ci sono altre vie da seguire?
Proprio su questo si interroga in un recente articolo, pubblicato su un giornale palestinese di Gerusalemme, il nostro amico Noah Salemeh, affrontando il problema di quali siano i più efficaci mezzi per lottare contro l'occupazione israeliana, con particolare riferimento all'uso dei metodi nonviolenti di lotta.
Si tratta di un tentativo coraggioso di cercare di uscire dalla perversa logica della violenza e delle reciproche rappresaglie.

Credo sia importante non lasciare soli Noah e tutti quei palestinesi che cercano quotidianamente di costruire la pace in una situazione che rischia di apparire senza speranza. Qui il punto non è la leggittimità o meno della resistenza violenta all'occupante. Essa certamente è leggittima; ma non lo sono però, né sono moralmente accettabili, gli attacchi terroristici alla popolazione civile.
Né il punto è se si debba o no lottare contro l'occupazione: la lotta è necessaria! Quando si chiede la fine della violenza, in tutte le sue forme, non si chiede la fine della lotta, anzi si vuole una sua intensificazione.

Il fatto è che l’impiego della violenza è controproducente ed allontana, non avvicina, l'obiettivo della lotta. La lotta nonviolenta (lotta 'satyagraha', per usare il termine gandhiano) ha sempre in ogni sua fase presente l'obiettivo finale che, nel caso palestinese, è la costruzione di una realtà in cui i due popoli possano vivere in pace, nella sicurezza, e realizzando società democratiche, in cui siano ugualmente garantiti i diritti umani, politici e sociali di tutti i cittadini, uomini e donne, ebrei, mussulmani e cristiani.

La violenza invece da un lato de-umanizza l'avversario contribuendo a rendere difficile la convivenza che pure dovrà esserci alla fine, e dall'altro fa emergere nel proprio campo le forze più estremiste e meno democratiche, con effetti pesantissimi sulla stessa società che si vuole costruire. È purtroppo ciò che sta puntualmente avvenendo sia nella società israeliana che in quella palestinese. La facilità con cui da una parte e dall'altra si uccide è l'effetto di questa de-umanizzazione dell'altro.
L'uso di forme nonviolente di lotta invece aumenta la possibilità di tenere sotto   controllo la reazione violenta dell’avversario,  di umanizzarlo, e di condurre il conflitto in modo tale che alla fine non sbocchi nella comune rovina delle parti in lotta. Anzi può portare a costruire legami e convergenze trasversali fra le due parti, che uniscano nello stesso fronte di lotta tutti coloro, ebrei e arabi, che vogliono la pace, che sono preoccupati per la democrazia che hanno 'fame e sete di giustizia'.

Già nella prima intifada, accanto al lancio di pietre da parte di bimbi e ragazzi, erano state sperimentate diverse forme di lotta radicalmente nonviolenta: il rifiuto di pagare le tasse, lo sviluppo di economie locali (anche domestiche, con un forte ruolo delle donne) allo scopo di rafforzare la capacità di resistenza ma anche di sostituire e boicottare le merci israeliane, gli scioperi, le manifestazioni congiunte con i pacifisti israeliani, ...
Tutto questo aveva reso 'impotente' il potentissimo esercito israeliano impreparato ad affrontare un nemico disarmato, o armato di sole pietre. E questa impotenza si manifestava rabbiosamente nello spezzare le braccia ai lanciatori di pietre, con effetti devastanti sull'immagine di Israele di fronte all'opinione pubblica internazionale, quella stessa opinione pubblica che oggi invece simpatizza per un Israele presentato dai media come vittima del terrorismo.

In una situazione che appare senza speranza, forse è la nonviolenza l'unica possibilità di speranza.